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Ghiaccio rosso - prima parte

Aggiornamento: 4 feb 2019

di Alessia N.


Tutto ebbe inizio nel 2200. Provengo da una regione semi-artica del mondo, in un ambiente apparentemente incontaminato dalla corruzione e dall’egoismo dell’uomo, anche se l’urbanizzazione e la tecnologia sono arrivate anche qui ormai da secoli. Mi chiamo Geliya, sono giovane, piena di speranze, ho appena trovato lavoro come architetto al catasto della mia città, ma oggi, anche io devo fare i conti con la crudeltà e il desiderio di forze potenti che assediano il mio paese.

Da giorni, l’esercito nemico, composto da quelli che sino a pochi giorni fa erano i vicini oltre il confine, ha varcato il fiume della mia città, e sta marciando in forze, distruggendo palazzi, mettendo a fuoco interi quartieri, e spazzando via la poca resistenza del nostro piccolo esercito. Centinaia di anni di storia sono ormai andati perduti : intere strade, borghi ed edifici non esistono più, da lontano lunghe cortine di fumo stanno lì, ad indicare l’arrivo dell’apocalisse.



I venti di guerra erano già nell’aria da mesi, molti sono stati gli sforzi politici avanzati da nostri governanti, ma non c’è niente di peggio di chi cerca il pretesto per mandare all’aria la pace e prendersi tutto con la violenza. I miei amici, si sono arruolati nella milizia, alcuni di loro sono già morti, pochi sono riusciti a scappare prima dell’attacco, di altri non so più nulla. Intere famiglie sono state rastrellate e radunate nello stadio della città, compresa la mia, in tende di fortuna, al freddo e senza viveri.

Quando le guardie hanno bussato alla nostra porta era notte, ci hanno preso all’improvviso. Non abbiamo avuto modo di prepararci per la fuga, hanno preso i miei genitori e i miei fratelli. Io sono riuscita a nascondermi nell’intercapedine del muro della mia stanza, che era in fase di ristrutturazione, i lavori erano già in corso prima di quel tragico evento. Sono rimasta nascosta per due giorni, col pensiero alla mia famiglia, li avevo sentiti urlare di paura mentre le guardie li portavano al piano di sotto. Non ho avuto il coraggio di uscire dal mio nascondiglio, perché non sapevo proprio cosa avrei saputo o potuto fare.

Oggi sono consapevole di essere rimasta sola, in questa città deserta e martoriata, senza sapere cosa fare e dove andare. Non conosco il destino di chi è stato catturato, ancora no, ma lo scoprirò. Il mio obiettivo ora è quello di scappare lontano e magari riunirmi alle forze ribelli che sicuramente si saranno costituite da qualche parte per potere contrastare questa oppressione.


La città è circondata e blindata, anche il clima è avverso, fuori c’è molto freddo, ci saranno almeno 20 gradi sotto zero, e non si può passare la notte all’addiaccio, perché sarebbe morte certa, quindi, la prima cosa da farsi è quella di equipaggiarsi per il freddo e portarsi dietro il necessario per il sostentamento, come acqua e viveri, e, perché no?, anche qualche oggetto da usare come arma.

Sarà comunque un’impresa ardua scappare dalla città. Non funziona più nulla, non c’è la corrente elettrica, le trasmissioni radio sono interrotte, quindi, neanche internet funziona.

La mia casa è deserta, non l’avevo mai vista così silenziosa e devo dire che provo un grande senso di tristezza e panico nel pensare a quello che staranno passando i miei familiari, mia madre, mio padre, ma soprattutto le mie sorelline e mio fratello. Io sono libera, e devo resistere e lottare anche per loro. Non ho il coraggio di lasciare la mia casa, ma sento che devo, prima o poi le guardie torneranno a cercare gli altri superstiti, e mi è andata bene una volta, la seconda potrebbe essermi FATALE.

Mi viene in mente di avere portato a casa dall’ufficio una piantina di parte delle fognature della città, si trattava del mio primo incarico al catasto, e, quindi, si fa strada in me la voglia di scappare proprio seguendo quei cunicoli. E’ giunta l’ora di lasciare la mia casa, i miei tanti ricordi, le mie cose, certa di non rivederle più.

Esco di casa e, nell’androne del condominio già mi paralizzo, quando vedo una fioca luce provenire dal sottoscala. Non sento rumori, quindi, mi dirigo dove c’è il piccolo bagliore e scorgo una ragazzina dai capelli nero corvini, che alla mia vista si spaventa. Subito la riconosco: è Irina, la figlia della portinaia. È sola: anche ai suoi genitori è toccata la stessa sorte dei miei.

Le dico che voglio scappare dalla città e lei vuole venire con me. Forse non è una buona idea, in due saremo più vulnerabili, ma non la posso lasciare lì. Sono le due del mattino, entrambe, armate di torce elettriche, ci addentriamo nella città buia e gelida; in lontananza si vedono ovunque posti di blocco con soldati; con fatica e senza far rumore apriamo un tombino e io e la mia nuova amica scendiamo di sotto attraverso una scala con i gradini di ferro.



Sotto, nelle fogne, è molto umido, c’è cattivo odore, ma fa più caldo. Utilizzo la cartina per orientarmi. Proseguiamo verso nord per un’ora, ad un tratto il passaggio è sbarrato, perché la strada è crollata e si è aperta una grossa voragine, causata dallo scoppio di una bomba, così decidiamo di uscire allo scoperto e, proprio in quel momento, dei soldati nemici ci individuano e iniziano a sparare a raffica nella nostra direzione. Scappiamo e ci rifugiamo nella vecchia e dismessa centrale nucleare, un luogo buio, lugubre, pericoloso per via delle possibili radiazioni tossiche ancora attive, e, quindi, nello stesso tempo, anche sicuro, perché nessuno oserebbe entrarci. Ma non è così. Non lo è per noi, perlomeno. Col cuore in gola, sudate per la frenetica corsa, ci nascondiamo nella sala del reattore.


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